Dibattito | Il ruolo dell'industria nel processo di modernizzazione della Sardegna

Il saggio Pianificare la modernizzazione. Istituzioni e classe politica in Sardegna (1959-1969) dello storico Salvatore Mura presentato venerdì scorso 6 maggio dall'Associazione Nino Carrus a Macomer ha ribadito il ruolo strategico che l'industria ha avuto nel processo di modernizzazione della Sardegna e delle sue aree interne e ciò anche grazie a una classe dirigente capace di programmare. Di seguito pubblichiamo le conclusioni del lavoro di Mura che l'Associazione Nino Carrus ha avuto il merito di promuovere e approfondire.  

Leggi le conclusioni del saggio di Salvatore Mura Pianificare la modernizzazione. Istituzioni e classe politica in Sardegna (1959-1969): 

Nel 1969 la Regione autonoma della Sardegna compiva il suo ventesimo compleanno. La sua vita istituzionale, sin dalla nascita, era stata com­plicata. Lo spirito accentratore dello Stato italiano aveva prevalso per tutto il ventennio. I vertici nazionali della Democrazia cristiana, nonostante la tradizione autonomistica del movimento cattolico, erano stati i custodi principali del centralismo statale[1].

 

Certo con il disegno di legge sul Piano di rinascita (11 giugno 1962, n. 588) si cambiò passo – la Regione conquistò uno spazio importante nella programmazione dello sviluppo della Sardegna –, ma lo Stato finì per condizionare e limitare in molti modi l'autonomia dell'istituto regionale, conservando di fatto una concezione paternalistica del rapporto tra centro e periferia.

 

Anche quando l'intesa Stato-Regione era sancita dalla legge statale, il rispetto rigoroso dei patti era in discussione. Questo atteg­giamento "irregolare", tuttavia, non aveva impedito l'avvio di un nuovo corso. Alla fine degli anni Sessanta la Sardegna si presentava molto diversa sul piano economico-sociale rispetto a quella degli anni Cinquanta. I risul­tati potevano essere migliori, e sembravano poco soddisfacenti anche ai vertici delle istituzioni sarde. L'attuazione del Piano non esaudì le speranze. Sarebbe però ingeneroso disconoscere i segni di un'evoluzione verso la modernità, in particolare se si prende come riferimento il livello originario di sottosviluppo (o, se si preferisce, di mi­seria).

 

Con sempre maggiore insistenza, sin dalla seconda metà degli anni Sessanta, sono stati rimarcati i limiti del disegno complessivo: dalla scelta dello sviluppo per poli alla preferenza per i grandi gruppi industriali, dagli abusi nei confronti della comunità locale all'indifferenza verso la tutela dell'ambiente, dal clientelismo sfrenato di singoli rappresentanti della classe politica al potere alla scarsa attenzione alle risorse locali. E più di recente si è messa in evidenza l'incapacità di programmare e incoraggiare uno sviluppo autonomo dell'isola indipendente dagli interventi pubblici.

 

La classe politica sarda, che pure aveva una grande visione, certo non riuscì a prevedere la crisi degli anni Settanta. Non intuì fino in fondo che si stava per aprire un nuovo scenario internazionale, né comprese che ormai la Sardegna, perché aveva conquistato una nuova posizione nel mondo moderno, sarebbe stata sottoposta a condizionamenti esterni prima impensabili[2]. Al di là dei limiti, che evidentemente non vanno trascurati, si dovrebbe sottolineare anche il trapasso da un'epoca caparbiamente legata alla terra, appena sufficiente a garantire la sopravvivenza dei lavoratori, ad un'altra epoca, che avrebbe ravvicinato molto la vita dei sardi a quella degli abitanti della penisola, senza però mai colmare il gap iniziale che aveva giustificato l'avvio dell'intervento straordinario.

 

Anziché considerare come unità di misura il divario tra gli obiettivi pianificati dalla classe politica e i risultati effettivamente raggiunti[3], si potrebbero osservare i progressi compiuti, in senso lato. Le istituzioni regionali, e in particolare il Consiglio, erano diventate, come dichiarò Paolo Dettori celebrando i vent'anni di autonomia, un luogo «insostituibile» di confronto politico[4]. La classe politica sarda era maturata. Da una prima fase di staticità, che suppergiù corrisponde al primo decennio di vita della Regione, si era passati ad una fase di mobilitazione e di dinamismo. La classe politica sarda era ora il motore di un'impresa epocale, che si preoccupò di svolgere allargando le maglie della politica. La ricerca della partecipazione della popolazione, anche attraverso l'istituzione dei Comi­tati zonali, non può essere sottovalutata.

 

Una tensione democratica muoveva la "nuova" politica. Il diritto al lavoro attraverso la rincorsa alla piena occupazione, l'accesso alla proprietà fondiaria e la cooperazione agricola, l'istruzione pubblica, la sanità diffusa (ma l'elenco può essere più lungo) avrebbero dovuto avvicinare le diverse classi sociali e spingere ad un livello più alto di uguaglianza. Lo sforzo di superare una società "antica", in cui il privilegio di nascita era ancora un fattore estremamente condizionante, può essere considerato un segno della modernità. In buona misura, anche la ricerca dell'uguaglianza dovrebbe legittimare una lettura in positivo del processo di costruzione della Sardegna "moderna". L'ideale egualitario era alla base del tentativo di appianare le differenze fra la Sardegna e la parte della penisola meglio sviluppata[5]. Nella classe politica agiva, ed era molto forte, l'aspirazione ad offrire ai sardi le stesse opportunità che avevano gli abitanti delle regioni più avanzate del mondo.

 

La Regione, grazie anche ai fondi del Piano di rinascita, non soltanto era intervenuta con misure finanziarie e fiscali tese ad agevolare la nascita di un apparato industriale, ma importanti risorse erano state investite nelle opere infrastrutturali (strade, ferrovie, porti, acquedotti, aree artigianali e industriali attrezzate), nella formazione (e quindi nel capitale umano), nel sostegno alle imprese agricole, nell'edilizia popolare, nello sviluppo del turismo (l'elenco può essere molto lungo). «La Sardegna – ha scritto Raffaele Paci – conosce un periodo di grande crescita economica durante tutti gli anni Sessanta e nella prima parte dei Settanta»[6].

 

Un nuovo sistema economico plurisettoriale, e non più soltanto agro-pastorale, si era imposto senza incontrare alternative simili per concretezza e consenso popolare. L'agricoltura aveva perduto occupati; l'industria era arrivata vicino a quota 100.000 addetti. Lo storico blocco agrario si era fortemente indebolito e in molte parti dell'isola si era disfatto. La classe politica però non aveva l'obiettivo di liquidare l'intero mondo tradizionale sardo. Sosteneva che l'allevamento e l'agricoltura erano risorse fonda­mentali, seppure all'unisono avvertiva che per approdare alla modernità sarebbe stato necessario reimpostare ex novo il lavoro e la vita nelle campagne. L'operazione richiedeva un'attenta selezione degli elementi del passato che non avrebbero impedito o rallentato l'evoluzione, secondo i canoni allora dominanti. Non poche energie furono spese in tal senso.

 

L'arrivo dell'industria alimentò un sentimento di fiducia nel progresso e nutrì la consapevolezza della popolazione, convinta di poter percorrere, al pari delle regioni del Nord d'Italia, la strada della modernità. Un progetto, definito e realizzabile, sembrava potere spezzare, per la prima volta nella storia, la stretta correlazione fra l'isola e l'arretratezza. La classe politica al governo della Regione si era aperta alla moderna cultura della program­mazione economica, attraverso la quale avrebbe voluto razionalizzare e ridurre gli squilibri dovuti al libero mercato. Così da un'economia di sussistenza si passò ad un'economia mista, che sebbene presentasse limiti di grande rilevanza e persino in certa misura una dipendenza dall'esterno, conferì ai lavoratori un reddito più alto rispetto al passato, beni materiali e immateriali.

 

Alla fine del decennio lo stile di vita dei sardi era più vicino alla modernità di quanto non lo fosse dieci anni prima. Il livello di vita era più "umano". La lotta all'analfabetismo, alla mortalità infantile e al sovraffollamento delle abitazioni aveva portato rilevanti progressi.

Le infrastrutture e i servizi erano migliorati quasi ovunque. Nuovi modelli di consumo, tipici dei paesi ad economia avanzata, si diffondevano. La tecnologia e la meccanizzazione entravano nella vita privata e professionale dei sardi. L'innovazione aveva coinvolto alcune specifiche aree dell'isola, ma non aveva escluso completamente neppure le più tradizionalistiche zone dell'interno. Gli strumenti, i modelli, le pratiche, i messaggi della mo­dernità erano arrivati con una misura più o meno marcata in tutto il territorio dell'isola. Il mito del progresso aveva affascinato l'opinione pubblica sarda. La nuova società del benessere e del consumo di massa era sembrata l'approdo naturale. L'ipotesi di una crisi identitaria non aveva spaventato la società, e la volontà di cambiare aveva predominato. Nasceva una forte classe operaia e maturava anche nell'isola una coscienza politico-sindacale.

 

La seguente considerazione di Giuseppe Berta, riferita al contesto italiano nel suo complesso, può valere anche per il caso sardo: le fabbriche significavano per chi le viveva «linearità di comportamenti collettivi scanditi da un ritmo interno continuo e regolare», «condizione di certezza e prevedibilità su cui costruire consuetudini di vita, relazioni di appartenenza, sfere di azione pubblica», per molti voleva dire anche «un modo di intendere e di realizzare una società moderna, definita a ridosso dei suoi ambienti di produzioni, magari per contrastare l'autorità che vi prevaleva, ma comunque per estrarne indici di progresso, un nucleo di regole e di valori condivisi e, in breve, un'impronta di civiltà»[7].

 

La classe politica sarda contribuì in modo decisivo a trasformare la Sardegna in senso moderno. Sebbene le difficoltà connaturate alla costruzione della modernità (soprattutto nella prima fase) fossero state spesso nascoste per iniettare fiducia nel futuro, oppure sottovalutate perché fondamentalmente sconosciute, o ancora a volte strumentalizzate per inseguire fini politici e minimizzate per ragioni elettorali, all'interno della classe politica e dirigente avevano operato energie creative dinamiche, in continuo scambio dialettico con la penisola e in confronto indiretto con altre esperienze extranazionali. Così si erano tracciate le linee per un nuovo sviluppo economico e sociale, che rispondeva all'esigenza di radicalità avvertita dalla popolazione. Questo progetto lanciò ai sardi una sfida senza precedenti che avrebbe portato al superamento definitivo della Sardegna "antica".

 

Per maggiori informazioni sul saggio Pianificare la modernizzazione, visita il sito dell'Associazione Nino Carrus: CLICCA QUI

 

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