LAVORO | Importante sentenza della Cassazione su ridistribuzioni mansioni e licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Con sentenza n. 20750 del 16 agosto 2018, la Corte di Cassazione ha chiarito che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è ravvisabile anche soltanto per una diversa redistribuzione di determinate mansioni tra il personale in servizio, attuata ai fini di una più economica gestione aziendale, cosa che potrebbe comportare un esubero di qualche posizione lavorativa: ovviamente, restano fermi i limiti dettati dalla “non pretestuosità” e della effettività della ragione organizzativa.

 

CORTE DI CASSAZIONE sentenza n. 20750 depositata il 16 agosto 2018

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Mansioni – Soppressione posizione lavorativa – Ridistribuzione

Fatti di causa

1. La Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato compensate le spese di quel giudizio, confermando nel resto il rigetto della domanda di G.L. intesa all’accertamento della illegittimità del licenziamento intimatole dalla datrice di lavoro O.M. s.p.a. con lettera in data 30.11.2011. Il licenziamento era stato fondato sul giustificato motivo oggettivo costituito dalla soppressione della posizione lavorativa della dipendente, decisa nell’ambito di un processo di riorganizzazione della società volto a fronteggiare una sfavorevole situazione economico finanziaria dell’azienda.

1.1. Per quel che ancora rileva, il giudice di appello ha condiviso, sulla base di puntuale esame delle emergenze istruttorie, l’accertamento del Tribunale in ordine alla sussistenza dello stato di crisi addotto a giustificazione del licenziamento e alla impossibilità di diversa utile ricollocazione lavorativa della dipendente nell’ambito aziendale; ha precisato che l’obbligo di <<repechage>> non doveva essere verificato, come pure sostenuto dalla L., con riferimento alla compagine aziendale delle società collegate, non avendo la lavoratrice chiesto accertarsi la configurabilità in concreto tra le dette società di un unico centro di imputazione del rapporto e non essendo, comunque, emersi elementi idonei ad evidenziare il ricorrere in concreto di tale ipotesi. Premesso che versandosi in ipotesi di licenziamento individuale il vaglio concernente i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare non doveva essere applicato con il rigore proprio della diversa fattispecie dei licenziamenti collettivi, ha escluso che la individuazione della L. si ponesse in contrasto con il principio di buona fede e correttezza nell’attuazione e risoluzione del rapporto.

2. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso G.L. sulla base di quattro motivi; la parte intimata ha resistito con controricorso illustrato con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3, cod. proc. civ., violazione ed errata interpretazione dell’art. 3 Legge 15/07/1966 n. 604, censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto riconducibile all’ambito del giustificato motivo oggettivo anche l’ipotesi di riassetto organizzativo attuato per la più economica gestione dell’impresa. Sostiene che alla luce del disposto della norma in esame la crisi aziendale può influire sul regolare funzionamento dell’attività produttiva e/o giustificare un intervento sull’organizzazione del lavoro che comporti la soppressione di posti di lavoro ma, di per sé, non costituisce motivo sufficiente e necessario a legittimare il licenziamento il quale sarebbe giustificato solo in caso di soppressione delle mansioni o di esternalizzazione dell’attività alla quale il lavoratore era addetto ma non anche nell’ipotesi di mera soppressione della posizione lavorativa. Osserva, inoltre, che, come chiarito dal giudice di legittimità, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 Legge n. 604 /1966 cit. è quello determinato non dalla necessità di procedere ad un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere meramente strumentale a un incremento di profitto ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti. A questa ipotesi non poteva essere ricondotto il licenziamento in controversia risoltosi nella semplice eliminazione della posizione occupata dalla dipendente, avulsa da qualsiasi processo di ristrutturazione riguardante l’attività produttiva; a riguardo invoca la circostanza, che assume trascurata dai giudici di merito, della trasformazione del rapporto di lavoro della L. da full time in part time in relazione al periodo 1 settembre 2011 al 31 dicembre 2012, con assegnazione a mansioni di impiegata addetta all’ufficio traffico; tale trasformazione era stata negoziata nel luglio 2011 ed era avvenuta quando la società stava procedendo a licenziamenti, determinati dalle esigenze di razionalizzazione e riorganizzazione, di ben otto dipendenti, licenziamenti collocati temporalmente nel periodo 31.3./31.8. 2011; alla luce di tali presupposti il licenziamento della L. non poteva essere ricondotto ad una ulteriore ristrutturazione.

2. Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3, cod. proc. civ., violazione degli artt. 3 e 5 Legge n. 604 /1966 cit. in relazione all’errata interpretazione dei fatti emersi dall’istruttoria. Premesso che con il contratto part time l’azienda aveva assegnato alla dipendente mansioni di impiegata addetta all’ufficio traffico, censura la sentenza impugnata per avere ritenuto non contestata la soppressione del detto ufficio sin dall’anno 2009 ed avere, in conseguenza, ascritto alla L. l’errore di avere indicato, come sua possibile sede di destinazione, ai fini del <<repechage>>, proprio l’ufficio traffico. Deduce, inoltre, violazione della regola sulla distribuzione dell’onere della prova con riferimento alla dimostrazione della impossibilità di altra utile ricollocazione lavorativa della dipendente.

3. Con il terzo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 comma 1 nn. 3 e 5 , cod. proc. civ., violazione degli artt. 3 e 5 Legge n. 604 /1966 ed errata, insufficiente e/o contraddittoria motivazione. Critica la sentenza impugnata per avere affermato che il giudice di primo grado aveva accertato la soppressione della posizione lavorativa occupata dalla L., indicata nell’intimazione di licenziamento, quale misura adottata dalla società in conseguenza delle riscontrate difficoltà economiche, in modo coerente alle risultanze istruttorie.

Assume che al momento del licenziamento la L. svolgeva mansioni di addetta all’ufficio traffico e all’ufficio preventivi e ordini, che l’ufficio traffico non era stato soppresso e che vi era stata redistribuzione delle mansioni facenti capo alla lavoratrice licenziata. Evidenzia che mentre appariva pacifico che alcune delle mansioni in precedenza svolte dalla L. erano state, dopo il licenziamento di questa, assegnate ad altri dipendenti, nulla la società aveva dedotto in ordine alle attività svolte dall’ufficio traffico nel novembre 2011. Sostiene che il giudice di merito, per ritenere legittimo il licenziamento in oggetto avrebbe dovuto verificare che la redistribuzione delle mansioni costituiva causa e non effetto del licenziamento in quanto connessa ad una scelta di riorganizzazione dell’attività produttiva; la sentenza impugnata, invece, aveva mostrato di ritenere che la ripartizione delle mansioni fra gli altri dipendenti costituiva mera conseguenza del recesso datoriale.

4. Con il quarto motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 comma 1 nn. 3 e 5, cod. proc. civ., violazione degli artt. 3 e 5 Legge n. 604/1966 cit. in relazione agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., censurando la sentenza di appello per avere escluso, sul rilievo che gli altri dipendenti avevano qualifiche superiori e professionalità più marcate, che la scelta della L. tra i dipendenti da licenziare si ponesse in contrasto con i principi di correttezza e buona fede . Osserva che, per costante giurisprudenza, la scelta fra i lavoratori da licenziare, doveva essere effettuata non sulla base del criterio discrezionale della professionalità, ma di quello della età anagrafica e dei carichi familiari; la corretta applicazione di tali criteri avrebbe fatto ricadere la scelta del licenziamento su altri dipendenti ed, in particolare, sulla dipendente F., anagraficamente più giovane, assunta da due anni e senza carichi familiari; in senso contrario, infatti, non poteva assumere rilievo la circostanza della assenza di deduzioni sviluppate dalla ricorrente sulla capacità di utilizzazione del programma Power point utilizzato dalla F., questione alla quale la sentenza di primo grado non aveva mai fatto riferimento. Deduce inoltre che le modalità di intimazione del licenziamento, intimato “in tronco” lasciava trasparire la natura sostanzialmente discriminatoria dello stesso.

5. Il primo motivo di ricorso è infondato. La sentenza impugnata, accertata sulla base di puntuale esame delle emergenze istruttorie/la effettività e non transitorietà della negativa situazione economica della datrice di lavoro O.M. s.p.a., ha ritenuto che tale situazione legittimava il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e precisato che, secondo la giurisprudenza di legittimità, tra le ragioni inerenti l’attività produttiva ex art. 3 Legge n. 604/1966 cit. si annoverava anche l’ipotesi di riassetto organizzativo attuato per la più economica gestione dell’impresa, caso in cui le scelte organizzative del datore di lavoro, quale espressone della libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost., non erano sindacabili dal giudice; in tale contesto, come correttamente osservato dalla sentenza di prime cure, la soppressione della posizione lavorativa occupata dalla dipendente costituiva una misura adottata dalla società in conseguenza delle riscontrate difficoltà economiche, secondo quanto desumibile dalle deposizioni testimoniali, concordi nel riferire che i compiti svolti in precedenza dalla L. erano stati redistribuiti fra gli altri dipendenti. Dalla motivazione alla base del decisum di secondo grado emerge, dunque, che la sussistenza del giustificato motivo oggettivo è stata fondata sulla considerazione che il licenziamento della L. costituiva misura organizzativa adottata in conseguenza della critica situazione finanziaria della società ed era finalizzato, evidentemente, attraverso il contenimento del costo del personale, ad una gestione più economica della stessa. Tale ricostruzione non risulta inficiata dalla deduzione della ricorrente relative alla stipula, nel luglio 2011, mentre la società stava procedendo ad altri licenziamenti, di un contratto che prevedeva la trasformazione del rapporto da orario a tempo pieno a orario a tempo parziale, nel periodo dal 1.9.2011 al 31.12.2012, circostanza dalla quale, in tesi, avrebbe dovuto evincersi che il licenziamento in oggetto era scollegato da qualsivoglia ristrutturazione aziendale. Invero, anche a voler prescindere dal difetto di formale enunciazione nella rubrica del motivo, della deduzione di vizio di motivazione, necessario a veicolare l’assunto della errata ricostruzione fattuale delle circostanze rilevanti, è da osservare che la censura non è articolata con modalità conformi al testo attualmente vigente dell’art. 360 comma 1 n. 5 cod. proc. civ., applicabile ratione temporis. Come chiarito da questa Corte, al fine della corretta denunzia del vizio di motivazione, si richiede l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia), con onere per la parte di indicare, nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, primo comma , n. 6), cod. proc. civ. e 369, secondo comma, n. 4), cod. proc. civ. – tale fatto, il dato, testuale o extratestuale da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la decisività del fatto stesso (cfr. tra le altre Cass. Sez. Un. 07/04/2014 n. 8053).

5.1. Parte ricorrente non ha sviluppato il motivo di ricorso in termini coerenti con tali prescrizioni posto che non ha individuato alcun fatto storico di rilevanza decisiva, oggetto di discussione fra le parti, il cui esame sarebbe stato omesso dal giudice di appello. Tale fatto non potrebbe in particolare ravvisarsi nella stipula del contratto di trasformazione in part time dell’originario rapporto di lavoro, circostanza questa alla quale il giudice di appello ha fatto espresso riferimento . Tanto è sufficiente a respingere il motivo risultandone assorbito il profilo di inammissibilità collegato all’inosservanza, nella evocazione delle circostanze di fatto acquisite al giudizio, delle indicazioni prescritte dall’art. 366. n. 6 cod. proc. civ.

5.2. Quanto alla deduzione relativa alla inconfigurabilità, in relazione alla concreta fattispecie accertata, di un giustificato motivo di licenziamento, si rileva che la sentenza di appello è conforme ai principi affermati in materia dal giudice di legittimità. Secondo quanto chiarito da questa Corte, infatti, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nella previsione della seconda parte dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, comprende anche l’ipotesi di un riassetto organizzativo dell’azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall’imprenditore, non pretestuosamente e non semplicemente per un incremento di profitto, bensì per far fronte a sfavorevoli situazioni – non meramente contingenti – influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, ovvero per sostenere notevoli spese di carattere straordinario; ai fini della legittimità del recesso è sufficiente, inoltre, che le addotte ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, causalmente determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa, non essendo la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell’art. 41 Cost.; in questa prospettiva è stato puntualizzato che il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ex art. 3 Legge n. 604/1966 cit. è ravvisabile anche soltanto in una diversa ripartizione di determinate mansioni fra il personale in servizioattuata ai fini di una più economica ed efficiente gestione aziendale, nel senso che certe mansioni possono essere suddivise fra più lavoratori, ognuno dei quali se le vedrà aggiungere a quelle già espletate, con il risultato finale di far emergere come in esubero la posizione lavorativa di quel dipendente che vi era addetto in modo esclusivo o prevalente, fermo, in ogni caso, il limite della non pretestuosità ed effettività della ragione organizzativa o produttiva addotta a base del recesso (v., fra le altre, Cass. 03/05/2017 n. 10699; Cass. 06/12/2017 n. 29238; Cass. 20/10/2017 n. 24882; Cass. 24/02/2012 n. 2874).

6. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile in quanto inidoneo alla valida censura della decisione di appello in punto di ritenuta insussistenza della possibilità di utile ricollocazione lavorativa della L.. Va premesso che il giudice di appello, nell’ambito di un più ampio contesto argomentativo destinato a dimostrare che alla stregua delle emergenze in atti nella compagine organizzativa della società non erano reperibili posizioni di lavoro alle quali poteva essere adibita la odierna ricorrente, ha preso in specifica considerazione la deduzione formulata dalla L. nell’atto di appello relativa alla possibilità di essere ricollocata nell’ambito dell’ufficio traffico. Ha, quindi, osservato che la soppressione del detto ufficio nel corso dell’anno 2009 costituiva circostanza pacifica in quanto la allegazione a riguardo formulate dalla società datrice nella memoria di costituzione di primo grado non era mai stata contestata dalla originaria ricorrente; ha, inoltre, evidenziato che nell’atto di impugnazione la lavoratrice non aveva in alcun modo negato di essere stata adibita, proprio a seguito della eliminazione dell’ufficio in questione, alle mansioni di emissione di preventivi e di ordini.

6.1. Da quanto sopra risulta, quindi, che il giudice di appello ha dimostrato di ritenere acquisita la circostanza dell’avvenuta soppressione dell’ufficio traffico sulla base del principio di non contestazione, conseguendone la implicita esclusione della necessità di verifica della stessa sul piano probatorio (v., tra le altre, Cass. Sez. Un. 17/06/2004 n. 11353). Tanto premesso, la censura di parte ricorrente, incentrata, in sintesi, sull’assunto che la ritenuta non contestazione in merito alla soppressione dell’ufficio traffico costituiva frutto della non corretta interpretazione del proprio atto di impugnazione da parte del giudice di appello, risulta inammissibile per difetto di autosufficienza. La odierna ricorrente non ha, infatti, riassunto o riprodotto il contenuto delle allegazioni e deduzioni formulate da controparte, segnatamente nella memoria di costituzione di primo grado (espressamente richiamata dal giudice di appello); tantomeno ha specificato le proprie posizioni rispetto a tali allegazioni. Ne deriva che la riproduzione, peraltro parziale, del solo contenuto del ricorso in appello, limitata ad alcune espressioni in esso contenute, slegate dal complessivo contesto di riferimento, non è idonea a dare contezza dell’errore ascritto alla sentenza impugnata.

La giurisprudenza di questa Corte ritiene, infatti, quale requisito di ammissibilità della censura di errata applicazione del principio di non contestazione, la trascrizione degli atti sulla cui base il giudice di merito ha ritenuto integrata la non contestazione che la ricorrente pretende di negare (Cass. 13/10/2016 n. 20637). Non avendo l’odierna ricorrente osservato tali oneri la censura articolata risulta inammissibile ed assorbe, logicamente, l’esame della ulteriore censura, che investe la verifica probatoria della allegata soppressione dell’ufficio traffico, verifica preclusa dall’acquisizione, ormai definitiva, della circostanza.

7. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile per difetto di pertinenza con le ragioni alla base del decisum di secondo grado; esso muove, infatti, dall’inesatto presupposto, in relazione al quale si richiama quanto osservato in sede di esame del primo motivo, che la sentenza impugnata avrebbe ritenuto la sussistenza del giustificato motivo oggettivo, pur configurandosi la redistribuzione delle mansioni della L. quale mera conseguenza del licenziamento. Secondo quanto già osservato in sede di esame del primo motivo, al quale si rinvia, la affermazione della legittimità del recesso datoriale muove da una ricostruzione affatto diversa della vicenda nell’ambito della quale la ridistribuzione delle mansioni fra gli altri dipendenti della società costituisce frutto di una specifica scelta organizzativa datoriale, dettata dalla protratta e critica situazione finanziaria della società, e non mera conseguenza della soppressione del posto di lavoro della odierna ricorrente.

8. Il quarto motivo di ricorso è infondato. Si premette che la giurisprudenza di questa Corte, la quale ha ritenuto che l’applicazione in via analogica dei criteri dettati dall’art. 5 Legge 23/07/1991 (in caso di mancato accordo delle parti della procedura collettiva su criteri diversi), all’ipotesi di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, costituiva parametro di verifica di conformità della condotta datoriale al principio di correttezza e buona fede ex art. 1175 cod. civ., si è espressa in relazione a fattispecie nella quale veniva in rilievo la questione della generica esigenza di soppressione di un posto di lavoro, in presenza di più posizioni fungibili perché occupate da lavoratori con professionalità sostanzialmente omogenee (Cass. 07/12/2016 n. 25192; Cass. 11/06/2004 n. 11124; Cass. 21/12/2001 n. 16144). In tale situazione, infatti, non essendo utilizzabile né il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere in quanto non più necessaria, né il criterio della impossibilità di <<repechage>> (in quanto tutte le posizioni lavorative sono, per definizione, equivalenti e tutti i lavoratori potenzialmente licenziabili), si è posto il problema dei limiti all’esercizio del potere discrezionale del datore di lavoro nell’individuazione del lavoratore da licenziare, in quanto anche in tale fase del rapporto la parte datrice è tenuta, ai sensi degli artt. 1375 e 1175 cod. civ., a comportarsi secondo il canone di correttezza e buona fede. In questa prospettiva è stato ritenuto che i criteri legali dettati dall’art. 5 Legge n. 223/1991 cit. configurano, nell’accertamento della conformità a buona fede della scelta del lavoratore da licenziare un parametro privilegiato, anche se non esclusivo, attesa la riconosciuta possibilità di utilizzazione di criteri diversi purché non arbitrari, improntati a razionalità e graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati (Cass. 07/12/2016 n. 25192).

8.1. Nel caso di specie nel quale, per come pacifico, non si pone una questione di soppressione di una posizione di lavoro fungibile con quella di altri lavoratori di professionalità equivalente, ma della soppressione della specifica posizione di lavoro occupata dalla odierna ricorrente e della ridistribuzione delle relative mansioni tra gli altri lavoratori, il nesso causale tra le ragioni produttiva o organizzativa ex art. 3 Legge n. 604/1966 cit. costituisce, in linea con la giurisprudenza di questa Corte (v. tra le altre, Cass. 27/10/2017 n. 25653) criterio sufficiente ad individuare nella L. il soggetto da licenziare, senza necessità del ricorso, in via analogica, ai criteri invocati dalla ricorrente. La sentenza impugnata, pertanto, va sul punto confermata sia pure sulla base di una differente motivazione in diritto ai sensi dell’art. 384 comma 4, cod. proc. civ., restando cod. proc. civ., assorbito ogni profilo attinente alla violazione dell’art. 360, comma 1 n. 5, cod. proc. civ., profilo, peraltro precluso, alla luce del disposto dell’art. 348 ter, comma 5, cod. proc. civ., versandosi in ipotesi di <<doppia conforme>>.

9. Al rigetto del ricorso segue il regolamento delle spese di lite secondo soccombenza.

10. La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo, posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 4.500,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Per informazioni rivolgersi all'Associazione degli Industriali della Sardegna Centrale
Referente: Direzione - Luigi Ledda
Telefono: 0784 233313
Fax: 0784 233301
E-mail: l.ledda@assindnu.it
Modifica Visualizzazione: Mobile Version | Standard Version